Tutti conoscono la storia dell’ex manicomio di Quarto o per lo meno dovrebbero. Era un luogo di “custodia” dei malati piuttosto che di terapia e di riabilitazione. L’internamento totale del paziente psichiatrico in queste strutture lo condannava all’emarginazione. Il manicomio di Quarto era, in effetti, circondato da mura perché ne venisse occultata anche la sola visione alle persone considerate “normali”. Era lontano dal centro, e a quei tempi, a Quarto c’erano solo campi. La struttura era molto autonoma e chiusa per quanto grande, era come un quartiere nato per non far uscire nessuno e far entrare i pochi. Tutto funzionava al suo interno senza troppi contatti con l’esterno: le visite da parte dei familiari avvenivano solo due volte la settimana. Il manicomio era stato costruito per contenere gli scarti della società e controllarli. Per quanto si possa definire come spersonalizzante per il paziente e istituzionalizzante, la struttura li tutelava da loro stessi e dalla società. Ad ogni modo anche l’impatto dopo la chiusura fu marginale. I pazienti, una volta aperti letteralmente i cancelli, non vollero uscire ed è proprio per questo che è nato il centro Basaglia, con lo scopo di riabilitazione dei degenti alla vita fuori dall’ospedale.

Quando il manicomio è stato chiuso nel 1978 con la legge Basaglia, nessuno si è chiesto che conseguenze potesse avere su quelle persone. Nessuno si è chiesto dove potessero andare, come potessero ricominciare e reinserirsi in una società ancora non pronta per accoglierli. Una volta usciti, per i pazienti era anche difficile rifarsi una vita perché segnati per sempre al loro destino di emarginati. E furono proprio i pazienti più autonomi, che avevano più coscienza di sé, del mondo, e della realtà, che hanno sofferto maggiormente. Di fatto erano la percentuale più alta tra gli ospiti dell’ex ospedale, che ha tentato poi (e molti di loro ci sono riusciti) il suicidio. Furono definite “vittime di una guerra che andava combattuta”, il male minore, perché se si fosse proposto un piano migliore ci sarebbe voluto troppo tempo per ottenere la chiusura dei manicomi italiani.
Ci furono all’incirca una trentina di suicidi a Genova ma alla società non è mai importato, non ha mai fatto notizia, nessuno si è mai occupato di fare giustizia.

Avete mai visitato l’ex manicomio di Quarto? Dovreste.
All’interno sorgono palazzi eleganti dove le aree verdi sono numerose e costituiscono un vero polmone d’ossigeno in mezzo alla città cementificata. Ci sono zone che creano ancora disagio perché il silenzio assordante che alleggia su di esse e il velo di dolore ed emarginazione che ricordano, ancora oggi è presente.
Si deve ritornare in manicomio per vincere la paura della follia, che è stata perpetrata nella nostra società, al pari della paura più attuale dell’immigrato, del povero, del disoccupato. Tutte condizioni di disagio che ci trasmettono inquietudine, e l’unica maniera di sentirci al sicuro è quella di tenerle lontano dalla nostra quotidianità. È vero che il rapporto con le diverse forme di alterità incutono timore, ma è proprio dall’urto provocato dalla differenza che nasce un’energia capace di rigenerare il legame sociale.

Questa introduzione era fondamentale per rendere giustizia al lavoro e alla passione dei ragazzi dell’associazione CDWR. Sbarcano a Quarto nel 2017 e da quel momento hanno iniziato a ridare dignità e rispetto ad un non-luogo, ai suoi spazi e alla sua comunità. Ha restituito a Genova, attraverso i suoi eventi, un pezzo della sua storia troppo a lungo occultata. Il progetto multidisciplinare prevede la realizzazione di eventi musicali e di esposizioni artistiche, con il Coordinamento per Quarto hanno aperto per la prima volta le ex cucine, oggi rinominate Spazio 21. Ma hanno fatto molto di più: hanno stretto legami con le associazioni del luogo tra cui IMFI – Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli, il Centro Sociale che gestisce il bar a integrazione socio-lavorativa e il Centro socio-riabilitativo Franco Basaglia. Stanno cercando di abbattere quei muri ancora esistenti tra i pazienti psichiatrici e il resto della società, perché Code War non lascia mai indietro nessuno. Si fonda sulla volontà di reinserimento e di riqualificazione di un territorio che, per quanto mi riguarda, è parte dell’anima della nostra città. Ed è questo che sta facendo attraverso i suoi eventi, valorizza i talenti nascosti della nostra meravigliosa, per quanto difficile, Liguria. Sta trasmettendo valori culturali e di cittadinanza attiva alle nuove generazioni, e infine, ma non per importanza, ha preso per mano il “voi” e il “loro” unendolo in unico e potentissimo noi.

Code War ha spezzato il silenzio che regnava nell’ex ospedale psichiatrico, gli ha dato una voce, e questa voce ora si sta facendo sentire. Ha valicato i cancelli di Quarto, ha bussato alle nostre porte e ora pretende di far parte del nostro coro. Ed è con la stessa intensità che voglio rispondere alla sua chiamata, e dal Festival Code War project 2020 (25, 26 e 27 settembre) aspettatevi tutto questo e siate altrettanto pronti e presenti ad accogliere l’immensità del messaggio, che qualcuno prima di noi, ci ha lasciato.

Visti da vicino nessuno è normale” e io aggiungo che è la caratteristica che ci rende unici nelle nostre diversità. Ciò che è diverso non è sbagliato, ma un valore aggiunto.

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