L’anniversario di un incubo

Mi ricordo ancora il momento esatto in cui lessi la notizia della dichiarazione di pandemia globale dell’OMS. Ero in Spagna, iniziava la primavera, ma io sentii un freddo glaciale. Voli cancellati, telefoni impazziti, farmacie svuotate, mail di conforto e uno scarso tentativo di sostegno dalle università, totalmente incapaci di darti risposte e certezze. Me lo ricordo come fu totalizzante apprendere quella notizia. Pandemia globale = non torno più a casa. L’incubo più buio si stava avverando. 

Un anno da quel giorno e le cose non sono cambiate di molto. Mi ricordo che appena rimpatriata non ho potuto riabbracciare la mia famiglia per 14 giorni, adesso un mio collega ha il figlio positivo e io non posso abbracciare di nuovo i miei genitori che, tra l’altro, stanno attraversando un momento davvero difficile. Gli amici lontani fuori dalla mia regione non li vedo da troppi mesi, non abbiamo potuto festeggiare lauree, compleanni e spensierate rimpatriate. Con gli amici vicini le cose non sono molto diverse, qualche cena, qualche passeggiata quando si può, quando il colore della tua regione te lo permette. Mi ricordo che durante il primo lockdown eravamo tutti fissati con il fitness e con la lettura, ora non abbiamo voglia neanche più di quello. Mi sono resa conto che i miei tempi sono cambiati. Ero solita a pensare e agire ad una velocità sopra la media, sempre di corsa e sempre a mille. Adesso mi è più tutto più difficile: mi sento come fossi in una bolla e che tutto quello che è attorno a me va a rallentatore, quasi come fossi assuefatta. Mi sento addormentata, poco reattiva. La sensazione perenne di essermi appena svegliata e sono stanca. Dio la stanchezza mentale e fisica che percepisco. Ogni movimento e pensiero mi richiedono uno sforzo disumano, perciò spesso mi ritrovo a voler rimanere da sola. Una mia amica dice che in fin dei conti siamo animali e, come tali, quando sentiamo di star male ci isoliamo. Forse ha ragione lei, forse di raccontarci che andrà tutto bene abbiamo perso la voglia. 

Se ho perso la speranza? Forse un po’, in particolare nel breve termine. Soprattutto quando si tratta di progettazione, di impegni e deboli promesse incorniciate da frasi come “a fine mese ne riparliamo”, “quando questo periodo sarà finito”. Le uniche cose che puoi organizzare sono ripetute cene da poche ore nei finesettimana, vedi le stesse persone, per fare le stesse cose e parlare dei ricordi precedenti al 2020. Si è stanchi anche un po’ di questo dopo un anno e mezzo. Reinventarsi in questo tempo così lungo e senza fine ha tirato fuori il meglio di noi. Non abbiamo fatto nessun corso, nessuna formazione, nessuno ci ha detto come dovevamo fare per non cadere in un sonno mentale buio e freddo. Ci siamo fermati a pensare un po’ di più chi siamo, se ci conoscevamo abbastanza e se le strade intraprese fossero davvero frutto dei nostri desideri. Ci siamo guardati allo specchio ogni giorno e, piano piano, da sconosciuti siamo diventati complici di noi stessi. Come dicevo la cosa più straziante è che non sai cosa ci sarà domani, cosa potrai o non potrai fare, se ci sarà lavoro, se potrai tornare a viaggiare. Quanto vi manca farlo? La curiosità di cercare nuove mete, l’eccitazione prima delle partenze, le ore passate a conoscere nuovi luoghi da visitare. Le cose leggere sono diventate pesanti e, quelle pesanti, sono le uniche rimaste. Abbiamo perso un po’ la voglia di essere fiduciosi e di rispettare le regole. Siamo diventati più fragili e per questo più egoisti. In questo anno e mezzo non è successo niente, ma è successo di tutto. Ho iniziato un percorso personale, profondo, difficile e tortuoso. Ho iniziato a riscoprirmi, con le mie paure, le mie insicurezze e le mie debolezze. Sto imparando a riconoscerle, a gestirle, ad abbracciarle. Non è facile, non sempre lo è. A volte mi fa bene a volte brucia lo stomaco.

Questo periodo così lungo mi ha dato modo di riflettere tanto, di dare delle priorità, di stravolgere quello che davo per scontato. Ho riflettuto e ho odiato riflettere, ho scavato a fondo, compreso, preso atto e ricominciato. Ma alla fine di tutto non ti resta che ricominciare, e lo faremo anche questa volta, anche se non è ancora finita, ricominceremo.

Parole tra amanti

Ci sono parole che non riesco a dire per paura di infrangerle, di infrangermi, di infrangerti. So che ti arrivo, tra questi fogli un po’ impacciati, con una scrittura poco elegante, so che tu riesci a sentirmi. E allora fallo. Sentimi, toccami, accarezzami. Ti racconto di me, di te, di noi. Ti racconto di quello che succede dentro di me, quando le tue dita toccano la mia pelle. Quando i tuoi occhi si incatenano ai miei, di quando il tuo respiro riempie i miei polmoni. Non c’è niente di facile. Le mie scelte non lo sono. Le tue scelte tanto meno. Tu giri a destra, io a sinistra. Io adoro la luce e a te dà fastidio. Eppure, nessuno scappa. Nessuno si muove. Nessuno indietreggia. Eppure tu mi guardi e io, non respiro più.

Adoro ogni parola che non dici. Adoro quando mi guardi urlandomi contro senza emettere un suono. Adoro quando mi passi le tue angosce durante la notte. Impazzisco quando sento il tuo sguardo attraversare le teste degli altri per piantarsi nelle mie iridi. Come se fossi la cosa più preziosa, ma sconosciuta che tu abbia mai avuto tra le mani. Adoro quando mi chiedi scusa. Adoro quando ragioni su quello che dico omettendo che, alla fine dei conti, non era una brutta idea. Adoro quando ridi. Adoro quando mi fai ridere. Adoro quando ti esaspero. Adoro quando nascondi il viso tra i miei capelli, dietro la mia schiena. Adoro quando mi rispondi in modo selvatico, per poi darmi un bacio, chiedendomi pazienza e ancora dolcezza.

Ma non siamo facili. Io sono veloce, futura, come un uragano, a volte passo distruggendo quello che trovo. Non controllo niente di quello che provo. Ti voglio sempre intorno non badando a dove siamo, con chi, cosa vuoi tu. Che non cerco di salvare nessuno, ma per mia natura sono abituata a condividere ciò che è difficile da sopportare da soli. Sono abituata a farti sentire che c’è un noi, e che su quel noi si può contare sempre. Non sono facile neanch’io comunque. Che so darti così tanto, senza poterti dare la quotidianità. So che la cerchi, so che la vuoi. E non siamo facili per via dei nostri mondi un po’ diversi e costretti inevitabilmente alla collisione. E che ci sono pezzi di puzzle così difficili da combaciare. Non ti so dire quando né come, non ti so dire con che modalità, ma lo troviamo il modo di restare uno di fianco all’altro. E non è facile accettarsi, lo so bene. Non è facile non giudicarsi, starsi dietro senza spaventarsi. Non è facile. Ma come te lo spiego che quando sono nuda davanti a te il cuore mi va in gola. Che tra le tue braccia io mi sento protetta, che le tue mani si intrecciano così bene con le mie. Come te lo spiego che mi sei entrato dentro, così tanto in profondità in così poco tempo da perdere il controllo. Come te lo spiego che le tue paura, i tuoi vizi, i tuoi sbalzi d’umore anche se, a volte mi spaventano, non mi destabilizzano. Come me lo spiego che sei l’ingranaggio meglio incastrato con la profondità del mio essere. Come me lo spiego che non so più niente, ma con te è tutto più chiaro. Come te lo spiego che pur essendomi saputa sempre, mai mi sono potuta riconoscere così.

Ma posso spiegarti come non ti lascerò andare anche quando le cose saranno difficili. Anche quando non capirò, anche quando avrò paura. Non ti lascerò andare. Perché tu vali la pena di essere toccato nelle corde più profonde della tua anima. E fai bene ad aver paura. Facciamo bene a temerci, perché dagli abissi non si torna più in superficie. Ti voglio nella mia vita con così tanta intensità, che non farò neanche un passo indietro. Diamoci la possibilità di essere complici in tutto quello che facciamo, di trovare il nostro equilibrio, diamoci la possibilità di camminare insieme, di costruire, di desiderare, di crollare, di sostenere, di guardare, di provare. Datti la possibilità di fidarti, di dividere quei pesanti fardelli con me, di sentirti protetto dalle mie attenzioni. Dalla mia delicatezza. Dalle mie paure, dalle insicurezze. Prenditi cura di me. Scegli me. Non sarà facile. Farà male. Ma sarà bellissimo. Ti ho detto tutto. E ora guardami, e parlami in silenzio. Accarezzami, non serve altro. Ma non smettere. 

Il tempo non ha prezzo

Il tempo mette ansia. È la cosa più preziosa che abbiamo ma ce ne rendiamo conto solo quando ormai è passato. “Tanto ne ho di tempo” la frase più usata e sentita fra tutte. Rinvii discorsi, impegni, confronti, responsabilità e piaceri, in nome di questo mantra che continui ad utilizzare senza pietà.

Poi ad un certo punto della tua vita scopri che il tempo mette ansia sul serio, che il ticchettio delle lancette inizia a riecheggiare in ogni scelta che prendi o pensiero che ponderi. Ti accorgi chi inizi a rinunciare a situazioni perché “non ho tempo, devo concludere”. E non sai davvero come sei arrivato da averne troppo a non averne più. Il momento forse più critico per l’uomo è quando non sei consapevole del valore che ha questo tesoro inestimabile. Lo sprechi senza dargli peso, investi in scelte sbagliate consapevole che avrai sempre un margine di correzione. Lo butti via, non dedicandolo a quelle persone che ti rendi conto di amare così tanto solo quando con loro il tempo è scaduto. E solo in quel momento ti accorgi davvero del gusto amaro che hanno le occasioni perse. Soprattutto quando un giorno ti svegli e vedi i tuoi genitori invecchiati davvero, pensi a dove sei stata in tutti quegli anni per non accorgerti delle rughe sui loro volti, delle spalle un po’ più curve. Ti accorgi che tuo fratello ormai è un uomo e che avete un po’ perso quella complicità che vi ha accompagnato dal primo giorno che vi siete conosciuti. E forse ci proveresti anche a tornare indietro, a goderti quei momenti felici che hai sempre dato per scontato, a farti coccolare un po’ di più dalla tua famiglia.

Io prima avevo così tante ore da spendere come volevo per chi volevo e poi, dall’oggi al domani, quando ho deciso di accettare una proposta di lavoro lontano da casa, le mie lancette hanno iniziato a correre come impazzite. E tutto ha iniziato a scorrere inevitabilmente intorno a me, sopra di me, senza toccarmi mai. Ho perso momenti di vita, di quotidianità delle mie persone. Non c’ero alla prima inaugurazione della casa nuova, alla prima firma di un contratto lavorativo, mi sono persa feste, vacanze e momenti importanti, felici e malinconici. A volte mi dimentico cosa significa godersi del sano tempo con un’amica, perché ormai per me, è diventato tutto un incastro per tener su quei frammenti che mi tengono inevitabilmente legata a questa città e alle sue persone.  

Mi sono resa conto che amo investire il mio tempo libero in tantissime cose, che il mare e l’odore di sale mancano nella mia quotidianità, che quando torno nei weekend non ho mai abbastanza giornate da dedicare alle persone che amo. E devo sempre scegliere o questo o quello, perché il tempo è sempre poco. Ma ho anche ritrovato la gioia nelle piccole cose: e mi emoziono ancora quando succede che il lunedì sono a Genova e posso cenare con il mio ragazzo, o che per colpa della pandemia ho lo smartworking e posso fare delle passeggiate con il cane. E che svegliarmi e fare colazione a casa mia, con tutti, è la cosa che amo di più. 

Poi è successo che la seconda ondata è arrivata e questa volta ha toccato anche me. E, finalmente, ho tempo. Così tanto tempo che quasi lo sto sprecando. Ho difficoltà ad organizzarmi le cose che devo fare, perché la verità è che quando hai 24h al giorno disponibili, rimandi. Rimandi così tante volte che alla fine hai buttato, ancora una volta, tutti quei minuti sacri come l’oro ma leggeri come piume; tanto leggeri che ti basta aprire la finestra della noia e della pigrizia, per un arco temporale indefinito, per far volare quello che ti appartiene. E ti fermi di nuovo a pensare, a cercare di capire perché oggi queste ore extra non le puoi sfruttare. Forse perché gli obiettivi che ti poni diventano sterili se non li puoi condividere con le persone che ami. Forse sapere che sei bloccata in una stanza non ti permette davvero di essere libera di scegliere come investire il tuo tempo. Dico forse perché la verità è che non si è mai soddisfatti delle occasioni che ti si presentano e sempre forse, abbiamo imparato a trovare troppe scuse per giustificare tutto questo.

Ma io una cosa in fin dei conti l’ho capita negli ultimi anni in cui ho avuto la possibilità di accorgermi di questo loop fastidioso e, che il tempo, questo infimo mezzo di misura, è la cosa più sacra che ho e nessun stipendio, nessuna proposta può comprare l’unica cosa che non ha un prezzo. Perciò fermati e dai valore a ciò che importa davvero, ora più che mai, perché quello che passa non torna più.

La storia degli emarginati e dei loro warriors

Tutti conoscono la storia dell’ex manicomio di Quarto o per lo meno dovrebbero. Era un luogo di “custodia” dei malati piuttosto che di terapia e di riabilitazione. L’internamento totale del paziente psichiatrico in queste strutture lo condannava all’emarginazione. Il manicomio di Quarto era, in effetti, circondato da mura perché ne venisse occultata anche la sola visione alle persone considerate “normali”. Era lontano dal centro, e a quei tempi, a Quarto c’erano solo campi. La struttura era molto autonoma e chiusa per quanto grande, era come un quartiere nato per non far uscire nessuno e far entrare i pochi. Tutto funzionava al suo interno senza troppi contatti con l’esterno: le visite da parte dei familiari avvenivano solo due volte la settimana. Il manicomio era stato costruito per contenere gli scarti della società e controllarli. Per quanto si possa definire come spersonalizzante per il paziente e istituzionalizzante, la struttura li tutelava da loro stessi e dalla società. Ad ogni modo anche l’impatto dopo la chiusura fu marginale. I pazienti, una volta aperti letteralmente i cancelli, non vollero uscire ed è proprio per questo che è nato il centro Basaglia, con lo scopo di riabilitazione dei degenti alla vita fuori dall’ospedale.

Quando il manicomio è stato chiuso nel 1978 con la legge Basaglia, nessuno si è chiesto che conseguenze potesse avere su quelle persone. Nessuno si è chiesto dove potessero andare, come potessero ricominciare e reinserirsi in una società ancora non pronta per accoglierli. Una volta usciti, per i pazienti era anche difficile rifarsi una vita perché segnati per sempre al loro destino di emarginati. E furono proprio i pazienti più autonomi, che avevano più coscienza di sé, del mondo, e della realtà, che hanno sofferto maggiormente. Di fatto erano la percentuale più alta tra gli ospiti dell’ex ospedale, che ha tentato poi (e molti di loro ci sono riusciti) il suicidio. Furono definite “vittime di una guerra che andava combattuta”, il male minore, perché se si fosse proposto un piano migliore ci sarebbe voluto troppo tempo per ottenere la chiusura dei manicomi italiani.
Ci furono all’incirca una trentina di suicidi a Genova ma alla società non è mai importato, non ha mai fatto notizia, nessuno si è mai occupato di fare giustizia.

Avete mai visitato l’ex manicomio di Quarto? Dovreste.
All’interno sorgono palazzi eleganti dove le aree verdi sono numerose e costituiscono un vero polmone d’ossigeno in mezzo alla città cementificata. Ci sono zone che creano ancora disagio perché il silenzio assordante che alleggia su di esse e il velo di dolore ed emarginazione che ricordano, ancora oggi è presente.
Si deve ritornare in manicomio per vincere la paura della follia, che è stata perpetrata nella nostra società, al pari della paura più attuale dell’immigrato, del povero, del disoccupato. Tutte condizioni di disagio che ci trasmettono inquietudine, e l’unica maniera di sentirci al sicuro è quella di tenerle lontano dalla nostra quotidianità. È vero che il rapporto con le diverse forme di alterità incutono timore, ma è proprio dall’urto provocato dalla differenza che nasce un’energia capace di rigenerare il legame sociale.

Questa introduzione era fondamentale per rendere giustizia al lavoro e alla passione dei ragazzi dell’associazione CDWR. Sbarcano a Quarto nel 2017 e da quel momento hanno iniziato a ridare dignità e rispetto ad un non-luogo, ai suoi spazi e alla sua comunità. Ha restituito a Genova, attraverso i suoi eventi, un pezzo della sua storia troppo a lungo occultata. Il progetto multidisciplinare prevede la realizzazione di eventi musicali e di esposizioni artistiche, con il Coordinamento per Quarto hanno aperto per la prima volta le ex cucine, oggi rinominate Spazio 21. Ma hanno fatto molto di più: hanno stretto legami con le associazioni del luogo tra cui IMFI – Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli, il Centro Sociale che gestisce il bar a integrazione socio-lavorativa e il Centro socio-riabilitativo Franco Basaglia. Stanno cercando di abbattere quei muri ancora esistenti tra i pazienti psichiatrici e il resto della società, perché Code War non lascia mai indietro nessuno. Si fonda sulla volontà di reinserimento e di riqualificazione di un territorio che, per quanto mi riguarda, è parte dell’anima della nostra città. Ed è questo che sta facendo attraverso i suoi eventi, valorizza i talenti nascosti della nostra meravigliosa, per quanto difficile, Liguria. Sta trasmettendo valori culturali e di cittadinanza attiva alle nuove generazioni, e infine, ma non per importanza, ha preso per mano il “voi” e il “loro” unendolo in unico e potentissimo noi.

Code War ha spezzato il silenzio che regnava nell’ex ospedale psichiatrico, gli ha dato una voce, e questa voce ora si sta facendo sentire. Ha valicato i cancelli di Quarto, ha bussato alle nostre porte e ora pretende di far parte del nostro coro. Ed è con la stessa intensità che voglio rispondere alla sua chiamata, e dal Festival Code War project 2020 (25, 26 e 27 settembre) aspettatevi tutto questo e siate altrettanto pronti e presenti ad accogliere l’immensità del messaggio, che qualcuno prima di noi, ci ha lasciato.

Visti da vicino nessuno è normale” e io aggiungo che è la caratteristica che ci rende unici nelle nostre diversità. Ciò che è diverso non è sbagliato, ma un valore aggiunto.

Raccontami di te

Ci sono storie che sanno di te, delle tue sfumature, delle tue emozioni e che hanno le tue forme. Sono le più rare perché quasi mai sei tu a raccontarle. Ci avete mai fatto caso che quando eravate piccoli, per esempio, c’erano storie che raccontate da alcune persone avevano un tocco davvero personale? Io me lo ricordo ancora quando mia nonna mi raccontava del suo primo e unico amore: il nonno. Il sapore che ha avuto il primo incontro, migliore di quello dei principi e delle principesse raccontato nelle fiabe tradizionali. Il loro sì che era reale, che era rosso e sapeva di biscotti al cioccolato. Non è mai stata una storia con il lieto fine, ma la posso ancora percepire l’emozione di mia nonna nel raccontare il loro primo bacio, le litigate, le avventure e degli occhi di lui, gli stessi per i quali, lei, ha abbandonato il suo mare per navigare nell’oceano più bello che avesse mai visto.

Ed è proprio in quegli anni che ho scoperto la passione per le storie, di quelle autentiche e originali. Non mi sono mai interessate le parole di un interlocutore diverso dal protagonista, perché in fin dei conti, come possono gli altri raccontare qualcosa che non hanno vissuto sulla propria pelle? Come posso fidarmi di frasi mai dette, immagini mai viste ed emozioni mai provate? Conosco persone che sono succubi delle proprie trame perché raccontate da altri: storpiate, amplificate, sminuite e sfigurate. Sono state così tanto interpretate che non sanno più di niente. E, inevitabilmente, i tuoi giudizi e i tuoi commenti irrompono senza pietà nell’identità di quella persona che, nell’angolo più umido, neanche riesce più a difendersi dalle parole affilate che gli vengono cucite addosso. Ciò che però più ci sfugge sono le conseguenze dell’usurpazione di una storia. I danni collaterali sono immensi: avete presente il cattivo dei racconti che in realtà alla fine si scopre buono? Ecco succede questo alle persone quando vengono derubate della propria storia, succede che non sono più padroni della loro identità e, alla fine, forse per stanchezza, si lasciano dipingere come le figure distorte che non rappresentano. Si è sempre usato il modo di dire vendere l’anima al diavolo per identificare l’assoluta privazione della morale e dei sentimenti di un uomo, ma hai mai provato a essere privata della tua storia? Cosa ti resterebbe da raccontare?

E infine conosco persone che si incastrano inevitabilmente con storie di terzi, e a volte il loro è un finale senza il vissero felici e contenti, di quelli che ti lasciano l’amaro in bocca e il respiro spezzato. Ma poi succede che ti innamori di quelle storie un po’ incasinate, intrinseche di sbagli e deformate dagli errori. E ti entrano dentro, nella profondità vibrante della tua anima, come se fossero l’acqua dissetante dopo ore sotto il sole, segnandoti irrimediabilmente. Solo così ti rendi conto che non importa quanto la tua storia possa essere scomoda, dolorosa, sbagliata e piena di rimpianti. È la tua, è marchiata dalle tue lacrime, dai tuoi sorrisi, dal tuo ossigeno, e per questo merita di essere raccontata solo da te e da nessun altro.
Perciò ora siediti e raccontami un po’ di te.

Ci vuole tempo per naufragare.

Che cosa c’è dopo?
Dopo quando?
Forse domani, o tra cinque anni, magari tra un mese.
Non lo so quando, non conosco il dopo.

È strano non avere progetti o rendersi conto che non sei tu il padrone del tuo imminente futuro. Non sei tu, perché non dipende da te. Per due mesi, ogni giorno mi svegliavo alla stessa ora, per fare le stesse cose e nello stesso modo. Per due mesi mi sono fermata, ibernata e atrofizzata. Era un desiderio in realtà, quello di fermarsi, ne sentivo l’esigenza da un po’ di tempo ormai. Penso dovesse essere più graduale, il tempo dico. Per apprezzare di più le ore che potevi dedicare alla stabilità delle cose, delle persone, della terra. Ma forse è stato giusto così, in fin dei conti le opportunità non bussano mai alla porta, passano dalla finestra e arrivano sempre in forme inaspettate.
Ingenuamente pensavo che mi bastasse più tempo per capire, ma non è mai così. Quando ti trovi dentro alla situazione in cui vorresti essere, si ribalta tutto, ancora più confuso di quanto non lo sia mai stato. Perché la verità è che non siamo mai pronti ai cambiamenti radicali, non siamo mai pronti a rimetterci in gioco un’altra volta. E così ti trovi ad attraversare l’oceano senza sapere quale possa essere davvero la tua meta.
Volevi solo navigare, scoprire nuove terre, scappare, ritrovarti o tornare?
Cos’è che vuoi davvero? Non lo so.

Non sai molto di quello di cui hai bisogno, che può renderti davvero felice, che ti dia equilibrio. E non puoi fare altro che navigare, seguire il vento, a volte contrastarlo e spesso essere dirottato verso un ignoto ancora più sconosciuto. Non so quanto tempo ci voglia per riuscire a capire la direzione giusta da prendere, ma so che adesso ci vuole un tempo immisurabile per ritrovare equilibrio, per perdere di vista quelli che definivi gli obiettivi principali, per volere quello che non vuoi, per lasciar perdere quello che volevi. Ti lascerai trasportare dalla corrente fino a smarrirti totalmente, e solo quando il tuo equilibrio sarà abbastanza forte da non naufragare, avrai capito dove puntare la tua bussola.

Sei il mio tempo.

Non c’è ricordo che non mi leghi a te. Eravamo semplici, lo siamo sempre state, ci piaceva immaginare. Quanta immaginazione ha accompagnato la nostra crescita. Mi ricordo quando andavamo al mare e la cosa più importante era la scelta dello scoglio più ampio, solo così potevamo creare la nostra casa. Potevamo vedere la sala, la stanza da letto, la cucina e anche il bagno. Avevamo un sacco di amici: il materassino, la canoa e le ciambelle, tutti loro avevano un nome, e c’eravamo estremamente affezionate. Persino i pesci erano nostri amici, anche se poi dovevamo liberarli. Mi ricordo le storie che scrivevo. E tu, bé tu eri la mia unica lettrice, e sognavamo un mondo pieno di magia. Poi c’erano gli alberi. Grossi alberi a cui raccontavamo i nostri segreti, sicure che non ci avrebbero mai tradite, e che in qualche modo ci avrebbero tenuto legate per sempre attraverso le radici. Le stesse radici che presto sarebbero diventate nostre. Mi ricordo la campagna dove sognavamo di diventare fioraie o le cuoche facendo il sugo con i mattoni rossi. Mi ricordo dei nostri progetti pressoché irrealizzabili, e mi ricordo ogni danno commesso e ogni soluzione data. Mi ricordo ogni volta che ci siamo asciugate le lacrime, tutte le volte che abbiamo risposto al telefono perché, non importava quale fosse il problema o la gioia da condividere, l’importante era farlo con te. Mi ricordo quando una volta proclamata dottoressa, il primo sorriso in cui mi sono tuffata era il tuo. E mi ricordo la tua discussione, che ho ripetuto parola per parola, con te. Mi ricordo ogni tuo arrivo ad ogni mia partenza, e mi ricordo ogni tuo sguardo complice. Mi ricordo quando ci siamo tatuate l’albero del nostro per sempre. E mi ricordo quando ci siamo promesse che saremo in tutti gli alberi, in tutte le radici, il mare e il cielo che incontreremo. Saremo una cosa sola. Te lo ricordi vero? Ucs. Una cosa sola. Ma lo siamo sempre state, nonostante la diversità, mentre tutto crollava intorno, io e te, non abbiamo mai subito crepe.

Quando si parla di anime gemelle, di incastri, di persona giusta, si pensa inevitabilmente ad un ipotetico partner. Ma te lo ricordi quando ci siamo rassegnate al fatto che nessun altro potrà avere un decimo della perfezione che abbiamo noi? Sei tu il mio incastro perfetto, la mia anima gemella, la mia persona. Io e te siamo sempre state magia, e ti ricordi quanto ci credevamo in questa magia? Pensavamo uscisse dalla bacchetta magica, o chissà da quale parte del corpo. E solo più tardi ci siamo rese conto che la magia è sempre stata dentro di noi, tra di noi, la nostra connessione, la nostra complicità. Siamo sempre state magia e lo sarà per sempre.
Ho provato innumerevoli volte a spiegare il mio rapporto con te, a giustificare tutto il tempo che ci dedichiamo h24, 7su7,da 25 anni. Ma cosa avete da dirvi? Niente, tutto.

Non credo che mia madre possa dire di conoscermi nel profondo come te, non credo che anch’io possa dire di conoscermi come mi conosci tu. Perché tu sai essere un’amica, una sorella, un fidanzato, un genitore, una compagna di viaggi, una compagna di università, una consulente lavorativa, contabile, personal trainer, psicologa, insegnante, lettrice, sostenitrice, motivatrice, artista, e molto altro. E per questo, e per mille altri motivi che mai riuscirò a descrivere con le semplici parole che conosco, tu vali tutto il tempo che possiedo.

It was not enough

I met you during my first experience abroad. We were in Denmark, Aarhus. I’ve just told you about my Erasmus there and about Zamora. I don’t know how to explain my connection with her. She represented my Erasmus, actually. She is older than me and her English is perfect, instead of mine. I still wondering how we communicated during those days. But we did. We created one of the best friendship that I have, and I can call her sister for many reasons. One of these is that during our experience far from home, we support each other all the time. We were both, in a relation and we spent a lot of time to speak about that. But we had more. We had the worst hangover in one of the most disgusting pub, we had our Sunday date at the McDonald’s for the “mcflurry day“, we lived for one month in the same dorm, and we had many dinners, lunches and breakfasts together. We had our amazing time but after six months, when everything ended, for us, it was not enough. Indeed, after six months from the end of Denmark’s chapter, we decided to meet us again, and Prague was the destination. Everything was changed in our life but not our relation. I can still remember the moment that I saw her at the airport. I felt like a child: excited and uncontrollable. But it was not enough. Six months later we tried again to organize a trip somewhere, but we realize that it was summer and I’m Italian, so why not in my place? You met all my family, you visited my favourite places, we made many “aperitivi”, white wine, sunset and we admired the sea. And I comprehended that when we said “it’s not a goodbye” we made a promise, and we were respecting it. We spent one year without seeing each other, and as always things in our life changed again, but we continue to have a strong connection; in March we graduated in the same week in two different countries. In the same summer I visited you in Amsterdam only for a few days, just the time to update you about my life, and you too, share some cocktails, lunch and then another “goodbye, see you again“. And it was true, we knew it. I moved to Padua and you came again in Italy to spend one more time together. And after 4 years it’s really crazy our connection. There are some periods where we text a lot, we send pics or vocal messages (really long actually), we know everything about each other, we share all the possible things we do. I don’t know how we are able to do this. Everything about us is different but we work so well together. We are connected strongly, as you were an Italian friend. No borders, no languages, no nationalities have ever separated us. And maybe this is the really power of friendship. I’m waiting to see together again, sis. Because for me it will never be enough.

Forse del buono c’è.

La quarantena fa schifo. Possiamo raccontarcela per giorni, ma la verità è che siamo tutti stanchi. Anch’io proverò a raccontarla a me stessa, solo per trovarci del buono. O per evitare il reparto di psichiatria. Siamo tutti agitati, nervosi, preoccupati, a tratti egoisti, poi un po’ altruisti. A volte cittadini modello, spesso giudicanti. É colpa degli altri, poi un po’ nostra, ma più di tutti, è colpa di quelli che stanno ai vertici. Sventoliamo la bandiera tricolore, ma siamo un popolo di caproni. La verità è che io avevo bisogno di fermarmi. Ci sono riuscita, mi ci voleva una pandemia mondiale. La prossima volta però un po’ meno. Ero in erasmus, ero in Spagna, era tutto organizzato, tutto incastrato perfettamente, e ora sono in Italia, a Genova e non sai più cosa potrai fare tra una settimana, o cosa succederà tra un mese. Ringrazi di stare ancora bene, che la tua famiglia e i tuoi amici siano solo all’orlo dell’esaurimento, ma nulla di più.

Io sto bene a casa. Era da tempo che non passavo intere giornate con i miei genitori, a litigare con i miei fratelli. Era da tempo che non ero partecipe del casino che la nostra famiglia è in grado di produrre h24. Delle battute assurde di mio padre, degli scioperi di mia madre senza una reale motivazione, di mio fratello che tormenta mia sorella, di mia sorella che tormenta mia madre, di mio padre che tormenta me. Non ci possiamo abbracciare perché mio fratello lavora in ospedale, sul divano ci si può stare non più di due alla volta, ci sono i turni per la sdraio in poggiolo, I turni spesa e i turni spazzatura. C’è mia sorella che passa l’amuchina in tutte le maniglie, mio fratello che divide la casa in zone contaminate e non, e mio padre che se ne dimentica. C’è mia madre che con pazienza cerca di tenere a bada quattro cani sciolti, mio padre che aderisce a tutte le catene del web. C’è il bollettino della protezione civile alle 18, c’è il bollettino dell’ospedale dove lavora mio fratello e ci siamo io e papà che da virologi passiamo a diplomatici, politici, e ministri. Ci sono le mie amiche, che come me, come tutti, si annoiano. E ci sentiamo ogni giorno in videochiamata a festeggiare compleanni, a condividere schede della palestra, tutte struccate, in pigiama e a lamentarci che mangiamo come se soffrissimo la fame. Ci sono i gruppi whatsapp, attivi come non lo sono mai stati. Ma che adesso non vengono silenziati perché ti salvano dalla noia. C’è il tuo ragazzo, che non vedi da un mese e che non vedrai per chissà quanto altro tempo. Che ti manca, dio quanto ti manca. Ma c’è, c’era e continua ad esserci. E alla fine a casa si sta bene, ma ti mancano le persone, ti manca toccarle, sentire i loro odori, vedere quelle espressioni che conosci molto bene, ma che un po’ stai dimenticando.
Siamo tutti distanti, nulla di nuovo per me, ci sono abituata. Ma, incredibilmente, non siamo soli. Ci riserviamo attenzioni che davamo come ovvie, ma di cui ne abbiamo ancora bisogno, estremamente bisogno.

Non impareremo niente da questa situazione, non lo facciamo mai. Ma domani, quando tutto questo finirà, quando torneremo a stare insieme per davvero, bé ci accorgeremo di quanto siano speciali i nostri amici, con cui hai superato pure questa. Che a passare da casa e stare con la tua famiglia non è più un peso, ma un privilegio. Che passeremo più tempo con la nonna, che non deve per forza andare tutto di corsa, che a volte dobbiamo goderci per davvero il tempo che abbiamo con alcune persone. Ci accorgeremo, e forse neanche troppo, che è bello leggere, prendersi cura di sé, parlare e confrontarsi, che se anche ci scoccia svegliarci presto la mattina, lavorare ci rende liberi, che studiare in biblioteca non fa poi così schifo, che l’attività sportiva alleggerisce un po’ tutto, e che litigare per cavolate non ha davvero senso. Ci accorgeremo che dormire bene e il giusto ci dà l’energia essenziale anche a 25 anni, e che in fin dei conti, conta solo chi sa restare.
La quarantena fa schifo, ma forse del buono c’è. Forse dovrei raccontarla un po’ meglio sta storia del “forse del buono c’è”, forse non c’è proprio niente di buono. Ma mi piace credere di avere avuto del tempo extra che mai avrei pensato di avere con la mia famiglia. Di aver stretto ancora di più i legami con i miei amici che, chi più chi meno, sono nella mia vita da anni. Di sapere che ogni giorno c’è una persona che si addormenta con il desiderio di vedermi presto, e si sveglia con l’attesa di fare quella chiamata a fine giornata. Mi piace pensare che questa volta riuscirò a preparare tutti gli esami senza ridurmi all’ultimo, ma mi piace pensare che neanche a sto giro ne sarò in grado.
Il covid-19 ci ha privato di tante libertà, ma questa quarenta ci sta dando la possibilità di fermarci un secondo per capire chi siamo, cosa vogliamo e con chi vogliamo stare. E forse, questo, è catalogabile come buono.

Tu superi ogni distanza.

A distanza è tutto più difficile, figurarsi durante un’emergenza globale. Non so perché ho sempre avuto questo dono innato di conoscere alcune persone prima di una mia partenza, non l’ho mai compreso. Questa volta però mi sono superata. Eravamo già partiti male, dopo una settimana dalla nostra conoscenza ero già ritornata a Padova, dove sto terminando i miei studi. E così tutto è iniziato: 400km di distanza come prima tappa. Mi ricordo quanto fosse difficile partire ogni volta, non ti abitui mai, neanche dopo un bel po’ di tempo. Io ho sempre odiato i saluti, quella sensazione di pesantezza che ti avvolge, lentamente. La senti partire dalla zona lombare e salire su per la spina dorsale che senti spezzarsi, allo stomaco che senti vuoto, privato di ogni organo. Ai polmoni che faticano a muoversi con tutto quel peso, neanche ne parlo del cuore, che non so dopo tutto, come faccia a battere con così tanto vigore. Ma il peggio è quando ti arriva alla testa, ti annebbia la vista, ti lascia quel gusto disgustoso e amaro in bocca. E il cervello smette di funzionare razionalmente. E tu lo sai che non stai partendo per la guerra, che non ci sarà nessuna trincea ad aspettarti, eppure in quella valigia ti sembra di avere del piombo.

La prima settimana di solito è la più tosta, dopo due giorni ti sembrano passati mesi. Io però ho sempre sofferto il weekend. Perché in cuor tuo sai benissimo che il tuo posto non è da nessun’altra parte se non con lui, in quel vostro nido, che diventa così intimo soprattutto nei weekend. Sarò banale, ma dormire insieme è il momento più sacro per una coppia. Ti abbandoni, totalmente e incondizionatamente, tra le sue braccia. Tra un intreccio di corpi scomodi, ma estremamente perfetto. E sei indifesa, le tue armi sono scariche, la tua armatura sulla sedia, niente ti può difendere, ma tu scegli comunque di fidarti. E così al tuo risveglio ti accorgi che non dormivi così serena da tanto tempo, che le coperte sono ancora in ordine e non sul pavimento, che sei riposata e compiaciuta. Bé in realtà nel mio caso, ho occupato tutto il letto, l’ho spinto fino al bordo e avrò cambiato almeno cinque o sei posizioni. Ma la cosa che più mi fa sentire a casa è quando io, dopo aver dormito quattro ore, lo sveglio con fin troppa euforia per essere una domenica mattina. “Dormi è ancora presto” mi sento dire e un secondo dopo sento le sue braccia stringermi al suo petto, un po’ per necessità, un po’ forse per timore che mi alzi dal nostro nido, che per noi significa non tornarci per un po’.
La seconda settimana inizia a pesare meno, inizi ad abituarti alla sua assenza, certo lo senti per messaggio, a volte ci scappa una chiamata, quando ti va di lusso persino una videochiamata. Sì perché a distanza devi organizzare tutto: i suoi tempi, e i tuoi, gli imprevisti, il telefono sempre carico, perché sai fin troppo bene che se perdi quell’occasione sarà un’utopia averne una seconda durante la giornata. Ma il difficile arriva quando devi prenotare treni, calcolare coincidenze, capire se hai abbastanza soldi per prendere un biglietto aereo. Mica è così facile per uno studente fuorisede far tornare tutti i calcoli a fine mese. E non lo è neanche per un lavoratore avere le ferie quando tu non sei in sessione, o non hai tutti i giorni lezione.

Comunque i primi sei mesi sono andati bene, mi sembra folle dirlo ma fu un lusso aver passato tre settimane di fila nella stessa città, soprattutto dopo che, spinta da un’altra occasione, mi ritrovo in Spagna per altri quattro mesi, durante una pandemia globale. Questa è sicuramente la parte più stressante. Sono partita il 18 febbraio e tra due giorni ci saremmo dovuti rivedere, se non gli avessero cancellato i voli. Ed è stato come un pugno dritto in faccia o nello stomaco, insomma dove fa più male. Dopo 24 giorni finalmente avrei potuto toccarlo di nuovo, accarezzargli il viso, vederlo sorridere senza avere uno schermo di mezzo. Avrei sentito il suo odore, e risentita la bellissima sensazione delle sua dita tra i miei capelli. Ma invece ti si chiede di stringere ancora i denti. E lo fai, perché in fin dei conti sei abituata, perché non è colpa di nessuno, perché lui vale molto più di una misera resa davanti ad un ostacolo. E allora riparti con i countdown, ma questa volta solo delle settimane perché sembrano di meno rispetto ai giorni, a stamparti sulla faccia un sorriso troppo tirato per essere spontaneo. Ma la verità è che dentro vorresti crollare, e ti ritrovi ad addormentarti con le lacrime agli occhi e a comporre il suo numero di telefono per dirgli “non ce la faccio così“. E iniziano le liti, l’aria è tesa, inizia a mancarti la tua famiglia, i tuoi amici e ovviamente lui. Ma sai che tanto a pasqua tornerai a casa.
Ora, in effetti, io non potevo sapere cosa sarebbe successo dopo. Un’intera nazione in quarantena, la mia ovviamente. Fino al 3 di aprile non potrò rientrare a casa, e ovviamente il mio volo era stato comprato per il 2. Cancellato. Per la prima volta nella mia vita ho sentito il panico assalirmi. Mai avrei pensato di urlare che avrei mollato tutto, che io non ce l’avrei fatta a resistere fino a data da destinarsi. Tornerò per le feste? O subito dopo? A fine aprile o i primi di maggio? Quando potrò rivederti? E nel frattempo i giorni passano, le settimane si allungano e sai che alla fine passeranno 46 giorni o anche di più, prima del vostro incontro. E l’unica sensazione che provi è una forte nausea che ti spezza in due. Ma continui a sorridere perché sai che se ti spezzi tu, se ti concedi questo lusso, l’altro ne soffrirà tremendamente. Bisogna essere forti insieme per mantenere una relazione, figurarsi a distanza. E così continui a dirti che presto vi vedrete, che alla fine non è così tanto tempo. Che siete forti abbastanza per superarla e che le chiamate aumenteranno, anche l’affetto aumenta in questi casi. Ti sembra stupido all’inizio dire certe cose un po’ “smielate“, ma dopo così tanto tempo lontani, ti sembra stupido non dirle. E hai bisogno di fargli sapere quello che provi, che in fin dei conti sei sempre bella anche in pigiama, e ci credi anche quando te lo dice. E vuoi fargli sapere che adori ogni sua imperfezione perché ti manca estremamente. Perché è di quello che ti sei innamorata, dei suoi difetti e dei suoi opposti.

Per esempio a me non piace la carne al sangue mentre lui ne va pazzo. Pochi giorni fa stavo camminando e avvicinandomi a una “carniceria” mi sono venuti gli occhi lucidi, perché in quel momento gli avrei comprato 20kg di carne solo per poterci sedere al tavolo e battibeccare sulla sua cottura.
E ci sono dei giorni in cui vorresti mollare tutto e tutti, perché stare insieme a qualcuno, dedicarsi a lui, significa scoprire quella tua parte tanto delicata, che hai custodito con tutte le tue forze, ormai già piena di crepe. Ma la verità è che sai perfettamente che quella parte di te così delicata e profonda, in realtà è sempre stata sua. E così non hai scelta che ricomporti, tirare fuori quell’armatura che avevi deposto e riaprire le danze. Anche se non sai quando, tu ogni sera vai a dormire con la speranza che le distanze si possano accorciare presto, ogni mattina ti alzi con l’ansia di avere una data. Va tutto bene, ce la faremo. Ripeti più a te stessa che a lui. Imparerò a prendermi cura di te, di noi, anche a 1429km di distanza. E non vedi l’ora di riuscire a rubare ancora un po’ di tempo, quel tempo infame che è sempre mancato. Ci vediamo presto amore mio, oggi meno di ieri.